mercoledì 21 marzo 2018

Savyon Liebrecht, "Le donne di mio padre" Intervista 2008


                                       Voci da mondi diversi. Medio Oriente


Quando, anni fa, avevamo letto “Prove d’amore”, il primo romanzo della scrittrice israeliana Savyon Liebrecht, ci aveva colpito l’originalità della storia- l’amore ‘a tempo’ di due persone che si conoscono andando a far visita ai rispettivi genitori in una clinica geriatrica. Leggendo in seguito i suoi libri di racconti, “Mele dal deserto”, “Donne da un catalogo” e “Un buon posto per la notte”, avevamo ammirato l’eleganza, la sensibilità e la discrezione del suo modo di narrare. Sono tutte qualità che abbiamo ritrovato in quest’ultimo romanzo appena pubblicato dalla e/o, di cui abbiamo parlato con la scrittrice durante la Fiera del Libro di Torino.

Questo è il primo romanzo dopo “Prove d’amore”. In mezzo ci sono raccolte di racconti: trovo sempre affascinante osservare come uno scrittore riesca a passare dai racconti ai romanzi. Come le è venuta l’idea per questo romanzo e come ha saputo che era l’idea per un romanzo e non per un racconto?
      Penso di essere, prima di tutto, una scrittrice di racconti. Infatti entrambi i miei romanzi all’inizio erano dei racconti. In questo caso l’idea era quella di un ragazzo che passa da una casa all’altra con il padre, era sul tempo passato insieme, di padre e figlio senza casa, alla ricerca di un tetto per la notte. Questo è il cuore del romanzo. Poi è venuta la domanda- dov’è la madre? E da una domanda ne nasce un’altra, e le domande sono diventate risposte sempre più lunghe e il racconto è diventato un romanzo.


I due personaggi principali sono due uomini: ha trovato difficile scrivere del dongiovanni Aharon Rosenberg?
    No, per niente. Penso che la domanda se sia difficile scrivere con una consapevolezza di uomo o di donna, se a farlo è uno scrittore del sesso contrario, sia irrilevante: è lo stesso, non fa differenza. Dipende da quanto si va in profondità, perché nel profondo la psiche di un uomo e di una donna si incontrano. La differenza è nel comportamento esterno dei gesti, ma il cuore è lo stesso. Una volta che ho delle informazioni sui protagonisti, non ho nessun problema. I bisogni e i desideri umani fondamentali sono gli stessi, non c’è una divisione così netta.

A proposito di Aharon Rosenberg, ci piacerebbe sapere quale è la storia che ha dietro di sé, che cosa c’è nel suo passato che lo porta in maniera così forte verso le donne. Potrebbe essere il soggetto di un altro romanzo?
Quello che avevo in mente per Abraham era un sopravvissuto dell’Olocausto, un bambino che a suo tempo non ha avuto abbastanza amore e così continua a cercare amore. La sua è stata un’infanzia non realizzata, il bambino che è in lui non si è sviluppato, si comporta in maniera irresponsabile. Ci sono dei momenti in cui il ragazzo sembra più adulto del padre.


La letteratura ebraica è spesso sulla memoria. Anche questo è un libro sulla memoria, anche se di tipo diverso. Si può sempre manipolare la memoria, come qualunque altro processo mentale?
   Sì, ho letto molti libri su come la gente ricorda o dimentica le cose, e poi qualcosa fa loro tornare in mente tutto. Si dice che se qualcuno nasconde un tesoro mentre è ubriaco, se lo vuole ritrovare è meglio che si ubriachi di nuovo, perché non lo troverà mai da sobrio. Come posso applicare questo al mio libro? Il bambino è cresciuto, non si può ritornare all’infanzia. Quando però ritorna sul posto, allora i sensi funzionano, quello che vede, gli odori che fiuta lo fanno ricordare. Negli Stati Uniti doveva iniziare una nuova vita, proprio come i sopravvissuti dell’Olocausto e non poteva permettersi di ricordare, doveva rimuovere la memoria.

La memoria della Shoah che deve essere mantenuta ad ogni costo, anche a quello della manipolazione: i suoi genitori sono sopravvissuti all’Olocausto, le hanno mai parlato dei ricordi del tempo prima, durante e dopo la guerra?
    So che ci sono dei sopravvissuti che parlano della loro infanzia prima della guerra. I miei genitori parlavano solo di dopo che si sono incontrati. Dopo la guerra mio padre ha trovato un lavoro e ha affittato una casa da dei tedeschi che avevano perso il figlio in guerra. E’ straordinario: io sono nata in Germania e, quando siamo andati a vivere in Israele, i miei hanno continuato a corrispondere con queste persone; io li chiamavo “Oma” e “Opa”, nonno e nonna. Non ho mai saputo se i miei genitori avessero dei fratelli e delle sorelle. Eppure esiste un silenzio che trasmette delle informazioni. Scopro di sapere delle cose che non mi sono mai state dette. Ad esempio, che mio padre era già stato sposato e aveva avuto un bambino- lo sapevo, lo avevo capito da una fotografia…


Il personaggio più toccante del libro è Berel, il sopravvissuto. Il ragazzino, e poi il giovane uomo che diventa, è molto affezionato a lui: che cosa hanno in comune?
    Penso che lo riconosca come il debole, in un certo senso sono entrambi vittime della loro situazione. Si assomigliano nella loro vulnerabilità, nel fatto che sono emarginati, Berel nella società e il bambino fra gli altri bambini.

La madre resta piuttosto fuori della scena: come mai?
  E’ americana e gli americani non hanno mai sperimentato niente di così terribile come l’Olocausto. L’America è un mondo così diverso. Gli ebrei americani sono dell’alta borghesia, non riescono a capire. Lei è cattiva nei confronti di Berel, è una ragazza viziata che ad un certo punto crede di vivere in un sogno e poi la sua vita viene spezzata.

La bellissima poesia che termina il libro è intesa per farci cambiare idea su Aharon?
    E’ un po’ come le domande su quale sia la verità: che cosa è successo in quella stanza? Aharon ha ucciso l’attrice? Oppure si è suicidata? O l’ha uccisa sua sorella? E così anche la poesia dedicata da Aharon alla moglie, che viene però letta anche dall’altra donna: è l’enigma della vita stessa.

l'intervista e la precedente recensione sono state pubblicate su www.wuz.it





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