lunedì 19 marzo 2018

Savyon Liebrecht, “Le donne di mio padre” ed. 2008


                                                      Voci da mondi diversi. Medio Oriente
                  Shoah


Savyon Liebrecht, “Le donne di mio padre”
Ed. e/o, trad. Alessandra Shomroni, pagg. 252, Euro 18,00

Titolo originale: HaNshim shel Aba

  Un secondo ricordo lo colpì come uno schiaffo: lui, suo padre e una donna sconosciuta dormivano nell’unico letto di un monolocale. La donna da una parte, suo padre in mezzo e lui di spalle, senza muovere un muscolo, immobile anche quando il materasso cominciò a ballare come se ci fosse un terremoto.

      Meir Rosenberg ha trent’anni quando la madre gli dice che il padre, che Meir credeva morto, è vivo. Che ha passato più di diciotto anni in prigione. Che è molto ammalato e che verrà in America a farsi curare. Come può reagire un giovane uomo ad una notizia del genere, che sconvolge il suo presente e fa riaffiorare un passato che aveva volutamente dimenticato? Sbattendosi la porta alle spalle e scendendo di corsa le scale, scordando che c’è l’ascensore. Fuggendo dai ricordi che da questo momento lo assilleranno, inarrestabili.
    “Le donne di mio padre” della scrittrice israeliana Savyon Liebrecht è un libro di ricordi che il lettore non riuscirà a dimenticare, un romanzo sul rapporto di un padre con il figlio e di come i comportamenti del padre abbiano influenzato quelli del figlio, una storia di un duplice viaggio- di Meir, bambino di sette anni, che viene messo su un aereo che da Tel Aviv lo porta a raggiungere la madre a New York, e di Meir trentenne che ritorna in Israele per incontrare il padre. E se, come ha detto un grande scrittore, la vita è una detective story, anche quella di Meir è un’indagine con un risvolto poliziesco. Perché, sulle tracce del passato, non è solo la personalità del padre che Meir vuole ricostruire, ma anche che cosa sia successo nella stanza di cui ricorda solo una grande macchia rossa su un lenzuolo.

     Esiste una verità? O la verità ha molte facce e ognuno ha la propria verità, così come ognuno ha la propria versione dei ricordi? Il fascino di questo libro è in parte anche in questo- nel procedere accumulando immagini del passato, a volte frammenti minuti, a volte quadri più ampi. Mettendo a confronto i ricordi di Meir con quelli del padre che, ogni tanto, sembra voler manipolare la memoria del figlio. Perché chi era in realtà Aharon Rosenberg, arrivato in Israele dalla Polonia attraverso la Russia, scampato all’Olocausto? Soltanto il vecchio Berel, che vedeva la Gestapo nella polizia israeliana, aveva conosciuto l’ Aharon di prima della guerra; a Tel Aviv il padre di Meir era un poeta squattrinato, un giornalista occasionale, l’uomo aitante che aveva sposato una ricca turista americana. Quando questa era andata a trovare il padre ammalato nel Connecticut, Aharon Rosenberg era stato sfrattato perché non era in grado di pagare l’affitto. E aveva avuto inizio il suo peregrinare con Meir. Ecco: è incredibile quanto lunghi possano essere cinque brevi mesi, 150 notti passate- in quante case diverse?
La tecnica del fascinoso Aharon è sempre la stessa: si aggira intorno al caffè degli intellettuali, o nelle sale da ballo, o dove possa fare degli incontri; adocchia una donna, la avvicina, la corteggia, si fa invitare a casa sua. Dopo essersi accertato che le piacciano i bambini, perché Meir lo segue ovunque, ascolta quello che un bambino non dovrebbe sentire, vede quello che non dovrebbe vedere. A volte dorme nello stesso letto dove i due gemono facendo sesso. O non dorme e si tappa le orecchie, nascondendo la testa sotto il cuscino. Era per mettere un tetto sulla testa del figlio che Aharon aveva elaborato questa strategia? O perché non poteva fare a meno delle donne, come dirà molto tempo dopo, parlando degli anni in prigione? E che cosa era successo nella casa delle due sorelle, dove si erano fermati più a lungo?
     E’ raro trovare un libro in cui la trama sia, dopotutto, esile eppure così ricca e piena, con dei personaggi a cui continuiamo a pensare anche dopo aver terminato la lettura. Perché questo è un romanzo che ha l’ambiguità della vita stessa e, quando crediamo di aver capito tutto di Aharon Rosenberg, arriviamo all’ultima sezione del libro, aspettandoci altre rivelazioni. Invece troviamo una sola pagina, con una poesia scritta da Aharon in carcere. Bellissima. E il nostro giudizio viene capovolto.

la recensione e l'intervista che segue sono state pubblicate su www.wuz.it



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