giovedì 18 aprile 2024

Armando Lucas Correa, “Una notte piena di luce” ed. 2024

                                           Voci da mondi diversi. Cuba

                                                              Storia di famiglia


Armando Lucas Correa, “Una notte piena di luce”

Ed. Nord, trad. Giuseppe Maugeri, pagg. 448, Euro 19,00

 

   Ally, Lilith, Nadine, Luna. Berlino. L’Avana. Miami. Berlino.

   Quattro donne, quattro generazioni, quattro luoghi. Due di queste donne compiono un atto di coraggio e di grande amore, allontanando la figlia per metterla in salvo: si può immaginare un sacrificio più straziante per una madre?

   Tutto inizia a Berlino dove nasce Lilith nel 1931. La levatrice consegna la neonata alla madre dicendole con disprezzo: è una bastarda della Renania. Ha messo al mondo una Mischling, una mezzo sangue. Questa bambina non è tedesca, è nera.

   Si erano amati, la poetessa Ally e il jazzista nero. Poi c’era stato l’avvento di Hitler e la politica di eugenetica nazista. Uscivano solo di notte, Ally e la sua bambina, perché di notte siamo tutti dello stesso colore, paventando il settimo compleanno di Lilith, quando una commissione avrebbe stabilito se la bambina dovesse essere sterilizzata per non contaminare la pura razza ariana. Poco importava che avesse un’intelligenza superiore alla media, il colore della pelle e i capelli, soprattutto i capelli, denunciavano chi fosse il padre. Ally deve pensare al bene della bambina. Ally accetta di affidare Lilith a una coppia di ebrei che si imbarcheranno con destinazione Cuba. Dai documenti risulterà loro figlia.


    Gli Herzog, con Lilith, saranno tra i ventisette passeggeri a cui sarà permesso di sbarcare, gli altri- più o meno 900- saranno rimandati indietro. È l’odissea della St. Louis, un altro capitolo vergognoso della Storia del secolo scorso.

Inizia così il filone cubano del romanzo. Lilith stringe amicizia con due ragazzini, con uno di questi si sposerà. Sono gli anni del presidente Batista, ma seguiranno gli anni violenti della rivoluzione e di Fidel Castro. Proprio come la sua vera madre Lilith perderà il marito e si separerà dalla sua bambina di soli tre anni che salirà su un aereo, questa volta, e non su una nave.


    Succedono tante altre cose, dopo questo nuovo cambiamento di ambiente, dopo che anche Nadine, proprio come Lilith, cresce con genitori che non sono i suoi, una coppia in cui lei è tedesca e lui americano. E qui mi fermo, perché, quando si incontra un personaggio tedesco dopo la guerra, è inevitabile chiedersi che cosa abbia fatto in quegli anni in cui tutti obbedivano agli ordini. Ci saranno molte sorprese, molti segreti che verranno alla luce, molta sofferenza. E tuttavia verranno alla luce anche le poesie di Ally di cui, finora, era rimasta solo quella che lei aveva affidato alla sua bambina prima che si imbarcasse, Viaggiatrice notturna.

    È un romanzo pieno di luce e di ombre, quello dello scrittore Armando Lucas Correa, nato a Cuba nel 1959. Inizia nel buio totale della notte del nazismo a Berlino, si rischiara al sole di Cuba prima che si addensino di nuovo le nuvole per poi illuminarsi alla fine con personaggi che si ritrovano- è come se una torcia venisse passata di mano in mano, fino ad arrivare a Luna- un nome che dice tanto, che rischiara la notte, una giovane donna che assomiglia in modo impressionante alla bisnonna. È un cerchio che si chiude. Nella luce.




 

mercoledì 17 aprile 2024

Angelo Del Boca, "Italiani, brava gente?" ed. 2005 - recensione e intervista

                                                                   Casa Nostra. Qui Italia

                                                           


    
C’è un punto interrogativo nel titolo del libro dello storico Angelo Del Boca, “Italiani, brava gente?” (ed. Neri Pozza, pagg. 305, Euro 16,00), che innesta il dubbio che la risposta possa essere “no”. Una risposta difficile da accettare, eppure i fatti accertati e documentati da Del Boca, riguardo al periodo storico che va dall’unità d’Italia alla fine della seconda guerra mondiale, parlano chiaro, i numeri sono più eloquenti delle parole, le fotografie archiviate sono un evidente atto d’accusa. E inoltre la realtà degli eccidi perpetrati dagli italiani non è stata neppure tenuta nascosta, anzi è stata all’epoca motivo di vanto, soprattutto durante il fascismo in quanto un comportamento così spietato corrispondeva agli insegnamenti inculcati per un nuovo modello di italiano: disprezzo per l’avversario, assenza di qualunque sentimento di pietà, esaltazione della “bella morte”. Il libro di Del Boca vuole sfatare il mito secondo cui gli italiani sono bonaccioni, gli italiani non sono crudeli, non infieriscono sui nemici, non sono neppure paragonabili agli “altri”, sono sempre stati bene accetti nelle terre occupate. Un mito di comodo e tuttavia allarmante in quanto ci autoassolve e rimuove un passato che va affrontato. I fatti che Del Boca illustra sono divisi in capitoli, come dei flash che rivelano uno scenario di morte in una luce cruda e impietosa. Si parte dalla lotta al brigantaggio dopo l’unificazione (fuorviante quel chiamare “briganti” gli insorti, visto che erano soldati dell’esercito borbonico), per passare poi in Cina, durante la rivolta dei boxer, e alle varie campagne in Africa. Ci sentiremmo meno offesi dalle parole di un Gheddafi se fossimo più informati e ricordassimo la prosopopea del “posto al sole”, il disprezzo contenuto in frasi come quelle del generale Baldissera nel 1888, “l’Abissinia ha da essere nostra, perché tale è la sorte delle razze inferiori; i neri a poco a poco scompaiono, e noi dobbiamo portare in Africa la civiltà non per gli Abissini ma per noi”, l’ignoranza totale della cultura e dei costumi della gente che ci apprestavamo a soggiogare, l’insulto contenuto persino nelle parole delle canzoni in voga, Faccetta nera, bell’abissina

E soprattutto se conoscessimo i nomi dei luoghi di infame memoria, il penitenziario di Nocra (detenuti incatenati su tavolacci, 300 gr. di farina a testa, 10 di tè e 20 di zucchero, acqua salmastra- e razionata- da bere), la piazza del Pane a Tripoli con la forca per le impiccagioni esemplari, i lager (“Soluch come Auschwitz”) in cui Graziani fece deportare 100.000 persone (la metà degli abitanti della Cirenaica), la “liquidazione completa” (la stessa espressione usata dai nazisti) dei monaci di Debrà Libanòs sospettati di connivenza con i ribelli- e la scena è fin troppo simile a quella degli stermini degli ebrei, con le vittime sul ciglio di una fossa in attesa dell’esecuzione: 2033 i morti. E ancora, le responsabilità di Cadorna, lo schiavismo bianco, la pulizia etnica in Slovenia, le 300 tonnellate di iprite sganciate tra il 1935 e il
1936 in Etiopia. Le cifre non hanno bisogno di commenti, l’accurata bibliografia a chiusura di ogni capitolo degli orrori non lascia margine di dubbio sulla veridicità dei fatti. Stilos ha intervistato il Professor Del Boca a Torino, dove vive.

 

Nel capitolo introduttivo del suo libro ci sono citazioni di quello che è stato scritto sull’Italia da visitatori stranieri, a partire dal 1600. E’ sconfortante osservare che quelle osservazioni negative sono le stesse che leggiamo tuttora sulla stampa straniera: dobbiamo pensare che, nelle parole di Heine, “il popolo italiano è intimamente malato e inguaribile”?

     Diciamo subito che anche i giudizi degli italiani sugli italiani non sono confortanti, anzi, forse sono ancora più cattivi, come quelli espressi da Leopardi. Come per tutti i popoli, ci sono delle stigmate, dei difetti che sono difficilmente guaribili. Nelle mie citazioni sono partito dal ‘600, ma sarei potuto risalire anche a prima. E purtroppo, quando capita di uscire dall’Italia e prendere contatto con altri intellettuali, ci si sente dire delle cose che non sono certo belle e che feriscono, soprattutto perché sono vere.

 Lei analizza come un certo tipo di uomo italiano sia stato “forgiato” dall’indottrinamento mussoliniano, dal martellamento di slogan che miravano a creare un modello di uomo forte, spietato, combattivo. Sarebbe possibile forzare un altro tipo di modello, incline allo spirito critico che porta alla disobbedienza come capacità di scegliere?


     Indubbiamente Mussolini è riuscito a creare un italiano duro e brutale ma, verso metà della guerra, parlando con Ciano, aveva osservato, “ahimé, questo italiano è peggiore di quello della prima guerra mondiale”, intendendo che aveva in parte fallito perché gli uomini si mostravano meno audaci. Se Mussolini, usando gli strumenti della sua epoca, è riuscito solo parzialmente a creare un italiano diverso, un italiano non mandolinista e timido, se è riuscito solo nella parte più negativa, a fare cioè un uomo brutale, una macchina da guerra, usando gli strumenti di oggi si potrebbe tentare di fare di meglio. Certo non può farlo Berlusconi, con la sua idea del mondo e della società consumistica. Ne uscirebbe un italiano mediocre, scarso di idee, privo di autocritica. Guardo alle sinistre e mi chiedo quale capacità possano avere. Ci vorrebbero dei decenni, ma le sinistre potrebbero almeno dare agli italiani il senso della misura, un rispetto maggiore per se stessi, una capacità di discutere e dialogare con gli altri. Mi basterebbe già questo.

 Il suo libro rompe un lungo silenzio: pensa che verrà accolto come una doverosa informazione e un equo riesame della storia, o che verrà accusato di voler denigrare l’Italia?

     In genere dopo la pubblicazione di ogni mio libro di storia coloniale ho ricevuto sia lodi sia attacchi. Lodi da chi accettava una revisione della storia e attacchi da nostalgici del fascismo e da elementi conservatori. Non è una sorpresa dunque vedere il giudizio diviso in due. Questa volta però, nelle recensioni pubblicate fino ad ora, non c’è un solo attacco e neppure ci sono obiezioni. D’altra parte è un libro conciso, in calce c’è un archivio che non può essere contestato. Che poi il libro possa servire a mutare delle opinioni su alcuni fatti- me lo auguro. Il libro contiene un messaggio preciso: non dobbiamo assolutamente accettare il titolo del libro, non ci meritiamo questa definizione così decisa, così sicura, non siamo “brava gente”. Spero che smetteremo di autoassolverci come abbiamo sempre fatto.

 Pensa che, inquadrando le azioni di violenza commesse dagli italiani in Africa e altrove nell’atmosfera del tempo, nel contesto della guerra, sia possibile renderle accettabili o per lo meno comprensibili?

     Secondo me in tutte le conquiste in Africa e in Asia, le violenze erano scontate, soprattutto dopo che, nel congresso di Berlino del 1884, si era codificata la spartizione dell’Africa. La violenza è ammessa, ma c’è uno spartiacque, ed è quello delle violenze inaccettabili che io documento. Ho fatto una scelta di episodi limite. Capisco che un esercito faccia una guerra per impadronirsi di territori, ma che bisogno c’era di usare l’iprite quando c’era già una superiorità di armi? Lì vedo la violenza, la barbarie inaccettabile.

 Perché non c’è stato nessun tribunale per i crimini di guerra italiani?


      Qualcuno ci ha tentato- nel 1946 Hailé Selassié ha inviato alle Nazioni Unite l’elenco di 970 criminali di guerra italiani chiedendo venissero sottoposti a processo. La cosa tragica è che, a impedire a Hailé Selassié di mantenere questo impegno, sono stati gli americani. Erano loro che mantenevano il paese in vita e con un preciso ricatto hanno impedito ad Hailé Selassié di fare un processo- avrebbero sospeso gli aiuti se avesse insistito a chiedere l’estradizione di quei personaggi. Gli americani non avevano interesse che venisse processato un Badoglio che per loro era un primo ministro che si era schierato a fianco degli alleati. Anche Tito ha fatto un elenco delle persone da estradare per processarle, ma gli è stato impedito da Roma e gli italiani hanno fatto un controelenco in cui il primo da processare era Tito. In realtà gli italiani non hanno voluto una loro Norimberga: se avessero chiesto l’estradizione di tutti i tedeschi criminali di guerra, nel momento in cui si cercava di portare la Germania dalla nostra parte, non sarebbe piaciuto né agli americani né all’Occidente. Così non c’è un solo criminale di guerra italiano che sia stato condannato. Soltanto Graziani ha avuto 19 anni ma ne ha scontato di meno per amnistie varie, e Graziani era non solo Ministro della Guerra di Salò, ma anche il “macellaio” degli africani.

 Nel libro si parla di Montanelli, di come abbia sempre negato le azioni criminose italiane in Africa, compreso l’uso dei gas: era in buona fede?


      Penso che fosse in buona fede quando è andato volontario in Africa. Non so invece, quando continuava a insistere con me- e la polemica è durata 35 anni- dicendo che lui c’era e non aveva mai sentito l’odore di mostarda del gas, che l’iprite non era mai stata usata. Più di una volta gli avevo  indicato i faldoni negli archivi italiani con i documenti che provavano il contrario. Mi accusava di essere antiitaliano e fazioso. Dopo 35 anni di queste battute, ho suggerito un arbitro a dirimere la questione: Susanna Agnelli, che era Ministro degli Esteri, e il generale Corcione, Ministro della Difesa. Dopo una serie di interrogazioni alle Camere, il ministro Corcione ha fatto una dichiarazione che demoliva la tesi di Montanelli: il nostro esercito aveva usato i gas in maniera continuativa e massiccia. Allegava alla dichiarazione il rapporto in cui Badoglio dichiarava che, dopo la battaglia di Amba Aradam, aveva scagliato tutta l’aviazione dell’Eritrea sull’esercito in fuga di Ras Mulughietà e aveva scaricato 60 tonnellate di iprite. Montanelli, da galantuomo, ha accettato la sconfitta e nella sua rubrica ha scritto “i documenti mi danno torto”, chiedendo scusa a me  e ai lettori. E’ stata un’ammissione importante, eppure ancora oggi tanti sono convinti che siano tutte fandonie, che noi italiani siamo brava gente.

 C’è un capitolo un po’ anomalo nel libro, quello sul generale Cadorna.

     Non è poi tanto anomalo, perché, dovendo elencare una serie di violenze al limite, Cadorna assomma in sé due forme di criminalità: nelle 12 battaglie dell’Isonzo ha mandato a morire centinaia di migliaia di soldati non perché avesse una precisa idea strategica, ma perché si era intestardito ad usare quei disgraziati come maglio contro le fortificazioni austriache. Questo è il primo grosso addebito che gli faccio, pure pensando ad altri generali che hanno usato gli uomini come carne da cannone. Ma c’è un’altra cosa da addebitare a Cadorna: la proibizione a che lo Stato italiano invii viveri ai prigionieri in Austria, al punto che 100.000 nostri soldati sono morti di fame e di stenti, mentre Francia e Inghilterra hanno inviato pacchi in maniera continuativa e hanno avuto un numero di decessi di gran lunga inferiore. Perché? Per creare una tale paura di cadere prigionieri da spingere i soldati a combattere fin all’estremo.


 C’è una somiglianza tra la velleità di portare la civiltà in Africa nel periodo coloniale e la presunzione di portare oggi la democrazia in Iraq e in Afghanistan?

     Certo che c’è una somiglianza: è una continuazione di questa presunzione dell’Occidente di possedere la verità e sapere quello che è bene, e la mistica di doverlo portare agli altri a prezzo di enormi sacrifici dei nostri, in cambio naturalmente di ricchezze materiali.

 C’è stato qualcosa di buono, di costruttivo, di civilizzatore, che hanno fatto gli italiani all’epoca delle conquiste in Africa?


     Non possiamo dire che sia stato un grosso regalo fatto agli africani, di aver costruito strade, ospedali, qualche scuola: finché eravamo là, servivano agli italiani. Penso che, se qualcosa di positivo è stato fatto, più che i governi siano stati i singoli italiani a farlo. Molti italiani hanno contribuito allo sviluppo di questi paesi, in particolare in Libia, facendo una specie di scuola di lavoro ai libici che erano alle loro dipendenze, anche se con risvolti di interesse. Invece nel Web Shebeli, in Somalia, gli indigeni che lavoravano nella piantagione erano trattati veramente come schiavi, tanto che lo stesso federale fascista Serrazanetti denunciò queste violenze a Mussolini in tre rapporti. Per quanto riguarda l’Etiopia, è probabile che la presenza italiana abbia in un certo senso inciso favorevolmente sullo sviluppo agricolo, lo ammettono anche alcuni storici etiopi.

 Che tipo di legame aveva creato l’esercito italiano con i corpi degli ascari?

     Gli ascari sono stati i reparti più fedeli all’esercito italiano, si sono svenati per gli italiani, ne sono morti 50.000 per l’Italia, in varie guerre. Durante la rioccupazione della Libia, dopo il ‘21,  i reparti erano quasi tutti di ascari. Graziani usava questi soldati per le loro capacità combattive, perché sapevano adattarsi meglio al terreno e al clima. A Cheren nel ‘41, durante l’offensiva inglese contro gli italiani, gli ascari hanno avuto più perdite che gli italiani. Eppure sapevano che la guerra era finita anche per loro.


 Perché questa dedizione estrema?

    Per fedeltà, perché speravano che l’Italia avrebbe dato loro una certa autonomia, combattevano per una pre-indipendenza. Devo dire che nel protonazionalismo eritreo c’è un coefficiente dato da questa dedizione degli ascari agli ideali italiani. E dire che gli ultimi ascari, ormai poche decine, hanno avuto una liquidazione finale di pochi soldi, invece della pensione.

Recensione e intervista sono state pubblicate nel 2005 dalla rivista letteraria "Stilos"

 

                                                                                          

lunedì 15 aprile 2024

Asmaa Alghoul e Sélim Nassib, “La ribelle di Gaza” ed. 2024

                                    Voci da mondi diversi. Medio Oriente

                                           romanzo autobiografico

Asmaa Alghoul e Sélim Nassib, “La ribelle di Gaza”

Ed. e/o, trad. Alberto Bracci Testasecca, pagg. 201, Euro 15,67

     Mai abbiamo sentito parlare tanto di Gaza come negli ultimi mesi. Gaza, come appare nelle pagine del libro “La ribelle di Gaza”, è una città senza pace, ma non è la città di macerie di adesso. È una città in cui la vita sembra ‘quasi’ normale e che Asmaa Alghoul ama, anche se poi deve allontanarsene. “La ribelle di Gaza” è lei, giornalista palestinese che, nei suoi articoli per il quotidiano Al-Ayam, documenta ‘la corruzione di Al- Fatah e il terrorismo di Hamas’. Nata nel 1982 a Rafah, un campo profughi nel sud della striscia di Gaza confinante con l’Egitto, Asmaa ha sposato un poeta egiziano nel 2003, lo ha seguito ad Abu Dhabi per poi divorziare da lui e ritornare a Gaza con il figlio. Non ha mai avuto paura di denunciare la violazione dei diritti umani, ha preso parte a manifestazioni, ha sfidato le autorità islamiche rifiutando di coprirsi i capelli e sfoggiando un abbigliamento occidentale come i jeans, è stata più volte minacciata e arrestata. Attualmente vive in Francia ed è lì che ha chiesto la collaborazione di Sélim Nassib per scrivere “La ribelle di Gaza”.


    Questo è un romanzo autobiografico scritto a due mani, un libro che racconta, in un linguaggio parlato e molto vivace, della numerosa famiglia di Asmaa, soprattutto di un padre musulmano ‘illuminato’ che ama la letteratura ed è di ampie vedute e di uno zio che è un importante dirigente dei servizi di sicurezza di Hamas. Le tensioni in famiglia sono all’ordine del giorno, proprio come quelle nelle strade di Gaza. Asmaa denuncia a voce alta le violenze e gli estremismi di Fatah e soprattutto di Hamas, ma anche le incursioni israeliane nottetempo, i bombardamenti del 2008-2009 che causarono la morte di 1400 palestinesi. Non può essere considerata che una ribelle, Asmaa Alghoul, perché non accetta la discriminazione femminile imposta da Hamas, respinge l’obbligo di coprirsi il capo e di non avvicinarsi agli uomini neppure per una semplice conversazione, si fa gioco dei guardiani della morale.

   “Da bambini giocavamo molto ad “arabi ed ebrei”, gli uni si nascondevano, gli altri li cercavano. In genere i maschi facevano gli ebrei e noi femmine gli arabi, perché gli ebrei sono più forti e brutali. Nessuno ragionava su cosa volesse dire, non facevamo politica, l’importante era divertirci.”


Inizia così questo libro autobiografico che ci rivela molto della quotidianità in Gaza e che ci piace per la sua immediatezza e per la passione che rivela. Ad iniziare da questo gioco che ci colpisce e ci fa male, perché sostituisce il ‘guardie e ladri’ che tutti noi abbiamo giocato, perché indica una paura recondita che cerca di sfogarsi nel gioco, perché sotto la forma del divertimento mette in scena la guerra continua. Ecco, se c’è una osservazione che farei riguardo a questo libro è che, pur non lesinando- anzi!- le critiche ad Hamas, si dà risalto agli attacchi violenti degli israeliani, senza però fare cenno a quello che li può avere provocati, senza dire se sono stati sferrati come ritorsione ad una impresa di Hamas.

    Tante cose sono cambiate, molto è peggiorato da quando Asmaa Alghoul ha scritto questo libro insieme a Sélim Nassib, ma questo è il documento di una donna che parla in nome della libertà e vale la pena di leggerlo.

Asmaa Alghoul è stata la prima Palestinese a vincere il premio Coraggio nel Giornalismo.



domenica 14 aprile 2024

Ragnar Jónasson, “Il sogno di Unnur” ed. 2024

                                                     Voci da mondi diversi. Islanda

cento sfumature di giallo

Ragnar Jónasson, “Il sogno di Unnur”

Ed. Marsilio, trad. Valeria Raimondi, pagg. 219, Euro 18,00

 

      Sono i giorni che precedono il Natale. Giorni che sembrano notti senza fine in Islanda, serrata nella morsa del buio e del gelo invernali.

In una fattoria nel nulla, nell’Est dell’Islanda, vivono Erla e Einar. Quella era la fattoria della famiglia di Einar, lui non la lascerebbe mai, lei si è adattata per amor suo, Erla sperava che la loro figlia restasse nella capitale, dopo avervi studiato e invece era tornata. Aveva ereditato la passione del padre per quella terra selvaggia. Non c’è nulla da fare a dicembre, nella fattoria. Soltanto dar da mangiare alle capre, e lo fa Einar. Erla passa il suo tempo leggendo, fa sempre una buona scorta di libri della biblioteca. E sa che sotto l’albero di Natale troverà un libro: in Islanda è una tradizione, regalare un libro con cui passare la notte di Natale.

   Le pagine di apertura del romanzo, quelle che descrivono l’atmosfera in quella zona, sono cariche di una minaccia incombente- il buio, la neve che cade, il silenzio ovattato, la consapevolezza di non poter andare da nessuna parte e che nessuno possa giungere alla fattoria per alleviare la solitudine: è difficile dire da dove esattamene ci giunga questa percezione di pericolo, ma cresce in noi la sensazione che qualcosa debba accadere.


E infatti si sente bussare alla porta. Einar va ad aprire, è lui il primo a stupirsi. C’è un uomo che dice di essersi perso mentre era a caccia con degli amici. Che cosa, in lui, suscita la diffidenza di Einar ed Erla? È soprattutto Erla ad essere diffidente, a pensare che l’uomo stia mentendo, le pare ci siano incongruenze nella storia che racconta. Dopotutto alla radio non hanno sentito la notizia di un uomo che si è smarrito. La bufera di neve aumenta di intensità, la linea del telefono è interrotta (strano, non era mai successo), salta anche l’elettricità, ma a questo sono abituati, hanno sempre scorta di candele. Si può forse rifiutare ospitalità a qualcuno, con queste condizioni atmosferiche? Poi, durante la notte, Erla sente che l’ospite indesiderato sale in soffitta. Che cosa cerca? Non dico altro, ma nel capitolo iniziale, quando a Hulda Hermansdottir, ispettore di polizia di Reykiavik, viene chiesto (è già febbraio) di andare ad Est per svolgere un’indagine, le viene detto che è una brutta storia, “non stiamo parlando di un solo corpo”. Quella notte, che doveva essere il preludio a giorni di pace e di serenità, è successo qualcosa.

   C’è un’altra storia drammatica, però, nel romanzo, anzi ce ne sono altre due o forse tre, tutte che riguardano dei genitori e delle figlie. Una di queste riguarda proprio Hulda, incaricata di questa indagine proprio quando lei stessa potrebbe essere oggetto di indagine, perché la tragedia peggiore che possa accadere ad una madre è successa nella sua casa. Di nuovo, nei capitoli che riguardano la vita privata di Hulda, quando entriamo con lei nella sua casa, siamo presi dall’ansia, proprio come lo è lei. Hulda ha una figlia adolescente, con tutta la comprensione per le problematiche umorali degli adolescenti Hulda è inquieta, è troppo strano che la figlia se ne stia chiusa nella sua stanza, che si rifiuti di festeggiare il Natale insieme a lei e al marito. Si sentirà in colpa, dopo, si chiederà che cosa non aveva visto, che cosa avrebbe dovuto fare, come sarebbe dovuta intervenire.

    La trama corre veloce sul ghiaccio, la soluzione ci sorprende un poco. Quello che resta indimenticabile è il personaggio dell’Islanda che domina su tutte le storie. L’Islanda che è un paesaggio in bianco e nero in cui perfino il silenzio ha una sua voce, l’Islanda in cui ci si può perdere nella tormenta ma anche in se stessi.



giovedì 11 aprile 2024

Elena Rausa, “Le invisibili” ed. 2024

                                                                   Casa Nostra. Qui Italia

              guerra d'Africa

Elena Rausa, “Le invisibili”

Ed. Neri Pozza, pagg. 267, Euro 19,00

   Sono le donne che sono invisibili, come è chiaro dal titolo del romanzo di Elena Rausa, con quell’articolo femminile plurale che non lascia dubbi.

Nicoletta, la fidanzata che parte per l’Africa perché non si rassegna alla lettera d’addio di Vittorio, Ekelé, la donna etiope per cui Vittorio aveva preferito mentire piuttosto che essere accusato di una colpa peggiore di quella di averla posseduta, Lilit, soprattutto Lilit, amata da Arturo, il figlio di Vittorio, che ora solo lui vede come fosse un fantasma, Fatima, la donna eritrea che si prende cura dell’anziano Arturo a rischio che le sue intenzioni vengano fraintese. E poi tutte le altre donne che non hanno né un nome né una voce, le belle abissine delle canzoni fasciste, rappresentate come oggetti di lussuria nelle cartoline di quegli anni.


 Mentre la trama si sviluppa tra un passato vecchio di quasi 70 anni e il presente, ritorniamo in Africa con Vittorio che nel 1932 parte per quelle terre al sole che promettevano un guadagno facile, nonostante l’opposizione della famiglia, nonostante la delusione e l’amarezza della fidanzata. Vittorio si illude di poter restare fuori dalla violenza, fa l’autista di camion, ha la dirittura morale dell’uomo semplice. Il capitolo che apre il libro è uno dei più cruenti, grondante di sangue. A seguito dell’attentato al viceré e governatore Graziani il 19 febbraio 1937, la rappresaglia punitiva fu di una violenza senza pari. Alcune cifre di questa caccia al moro: una cifra non precisa ma superiore ai 1400 morti uccisi dalle squadre d’azione nei primi tre giorni, 2500 gli etiopi fucilati dai carabinieri, 297 monaci, accusati di aver protetto i terroristi, uccisi nella città conventuale di Debrà Libanos (in realtà in totale i morti furono in totale 1400). Vittorio è testimone, raccapricciato. È anche testimone di un altro atto di violenza- su una donna, compiuto da un uomo che conosce- l’occasione sembra autorizzare lo sfogo di tutti gli istinti peggiori. Vittorio è un uomo semplice, già si è posto domande sulla differenza tra ‘terroristi’ e ‘patrioti’, ora non può restare a guardare. Porterà per tutta la vita il peso della sua azione.


   Nel 2018 troviamo un Arturo anziano a Milano. Abbiamo seguito la sua vita ad Addis Abeba, i suoi studi, poi il suo ritorno in Italia. Ora è solo e ipovedente dopo uno strano incidente automobilistico. Vede, non vede, Arturo? Di certo vede l’amata e perduta Lilit, le parla e lei diventa una voce narrante della sua storia. E qui la vita di Arturo si intreccia con quella di Tobia e di sua madre Agata. Dai servizi sociali al sedicenne Tobia è stato affidato il compito di essere di aiuto ad Arturo, dopo essere stato arrestato dalla polizia per aver commesso degli atti vandalici. Dietro Tobia c’è tutta un’altra storia che verrà fuori a poco a poco, così come a poco a poco Arturo racconterà al ragazzo di quegli anni di suo padre in Etiopia, delle colpe degli italiani. Tobia si interessa, inizia a fare ricerche. Ma quello è proprio l’ambito di studio di sua madre Agata e questa è ancora un’altra storia, con il riaffiorare alla luce dei documenti su suo nonno che era partito per l’Africa Orientale nel 1934, in forza al Plotone chimico del Regio Esercito Italiano.


    “E di tutto quel dolore ereditato che cosa si fa?”, chiede Agata a Fatima, un’altra donna che ha sofferto molto. “Io so quel che il mio popolo sa da sempre: ci sono persone che per mestiere cantano le storie.” È una maniera per conservare le memorie in modo poetico, “grazie al canto, chi ascolta non è più obbligato a sentire la colpa di qualcuno che è venuto prima o serbare rancore”.

    È quello che fa un libro, è quello che fa Elena Rausa nel raccontare una Storia che i più preferirebbero dimenticare ma che non deve essere dimenticata- sarebbe un oltraggio per i morti.



martedì 9 aprile 2024

Paul Lynch, “Il canto del profeta” ed. 2024

                      Voci da mondi diversi. Gran Bretagna e Irlanda

                                                    distopia

      Booker Prize 2023

Paul Lynch, “Il canto del profeta”

Ed. 66thand2nd, trad. Riccardo Duranti, pagg. 288, Euro 17,10

 

    Dublino. La famiglia Stack, padre, madre, quattro figli. Lei, Eilish, è una scienziata e ha appena ripreso il lavoro dopo il congedo per maternità. Il marito è un sindacalista. Il figlio maggiore ha sedici anni, poi c’è una ragazzina di 14, un altro maschietto di 12 e il neonato.

   È già buio quando bussano alla porta. Sono due uomini che vogliono interrogare Larry, il marito. Si sta preparando una manifestazione a sostegno degli insegnanti che chiedono un aumento di stipendio. L’atmosfera è intimidatoria- il nuovo governo di estrema destra della repubblica irlandese non tollererà né proteste né scioperi. Gli Stack pensano che siano minacce vuote anche se c’è una certa inquietudine che gira, riguardo alle posizioni estremiste del partito di Alleanza Nazionale.

Già questa scena di apertura ci introduce ad uno scenario fin troppo noto- da sempre, da sempre, c’è da temere quando uomini del potere bussano di notte alla porta di una casa. Succede sempre di notte, come se si volessero cancellare le tracce. E anche tutto quello che succede dopo ci è noto, da quanto è successo in altri paesi e in altri tempi. Come dire che non c’è mai niente di nuovo sotto il sole.


    La manifestazione si tiene, Larry viene arrestato, Larry scompare. A nulla serve ingaggiare un avvocato. A nulla serve cercare di rassicurarsi pensando che è impossibile che nella verde Irlanda succedano queste cose. Diamine, è un paese democratico, i cittadini hanno dei diritti, c’è l’habeas corpus. C’è  l’habeas corpus? È una situazione di emergenza, si giustifica il governo imponendo il coprifuoco.

   Molti se ne sono già andati, hanno chiuso la casa e hanno fatto fagotto. La sorella di Eilish vive in Canada, è da tempo che la incita a raggiungerla con marito e figli, almeno con i figli, adesso. E le ricorda che la storia è piena di gente che ha indugiato, pensando ‘non è possibile’. Non è possibile che si arrivi al peggio, non è possibile andarsene adesso (e se Larry tornasse e non trovasse nessuno?), non è possibile per Eilish abbandonare suo padre che dà segni di demenza.

    C’è un crescendo di buio nell’aria. Un costante peggiorare della situazione. Il figlio maggiore viene arruolato (ma come? ha appena compiuto 17 anni) e poi scompare (si è unito ai ribelli?), non c’è più l’elettricità, gli scaffali dei negozi sono vuoti, dai rubinetti scende acqua, si intensificano gli scontri tra forze governative e ribelli, aumentano i posti di blocco. È guerra.

    Che ne sarà della famiglia Stack? Che cosa dovranno sopportare prima di riuscire a prendere decisioni sofferte, pericolose, faticose?


     “Il canto del profeta” (vincitore del Booker Prize 2023) è un romanzo distopico, il partito che è dietro questa prospettiva di un futuro possibile non è lo stesso del “1984” di Orwell, ma i metodi, però, sono gli stessi (con l’aggiornamento delle nuove tecnologie), le scene descritte ci fanno pensare alla Germania nazista, all’Argentina dei ‘desaparecidos’. E se abbiamo una sensazione di irrealtà, se anche noi ci diciamo ‘non è possibile’, è perché il romanzo è ambientato in Irlanda che, nell’immaginario collettivo, dopo la fine dei ‘troubles’, è l’isola di smeraldo dove la gente è cordiale, beve birra nelle strade, canta canzoni folk. Le barricate nelle strade e i cecchini possono risvegliare in noi i ricordi di quella che fu, in definitiva, una guerra civile- quel tempo ormai è lontano e, paradossalmente, è proprio nell’Ulster che gli irlandesi della repubblica possono trovare la salvezza.

    Si legge bene, “Il canto del profeta”, ma non possiamo non avvertire un che di ‘già letto’.






 

 

 

 

 

domenica 7 aprile 2024

Joël Dicker, “Un animale selvaggio” ed. 2024

                                                        Voci da mondi diversi. Svizzera

cento sfumature di giallo

Joël Dicker, “Un animale selvaggio”

Ed. La Nave di Teseo, trad.  , pagg. 448, Euro 20,90

 

    Quando si dice ‘una coppia perfetta’…- tutto è perfetto nella vita dei due protagonisti di “Un animale selvaggio”, il nuovo romanzo di Joël Dicker. Loro due sono perfetti, prima di tutto. Bellissimi entrambi, Sophie e Arpad, e innamorati. Con lavori di prestigio- Sophie è avvocato e Arpad è un banchiere. Sono nel fiore degli anni- all’inizio del romanzo Sophie compirà quarant’anni a giorni. Hanno due bambini, maschietto e femminuccia. Abitano a Ginevra in una stupenda casa di vetro circondata dal verde, sul limitare di una foresta.

   Un’altra coppia fa da contrappunto a questa. Non sono perfetti, non sono ricchi, non hanno lavori di prestigio, non abitano in una casa di vetro ma in una villetta in una zona chiamata ‘l’Obbrobrio’, il che dice tutto. Lui fa parte di un corpo speciale di polizia, lei è commessa in un negozio. Hanno anche loro due bambini ed è tramite i bambini, compagni di giochi, che le due coppie si incontrano e iniziano a frequentarsi, con conseguenze imprevedibili. Perché l’ammirazione di lei per questa coppia perfetta diventa invidia, mentre lui, folgorato dalla bellezza di Sophie, diventa un voyeur- che cosa c’è di più facile, con il pretesto di portare a spasso il cane, che spiare qualcuno che abita in una casa di vetro? Già questo è grave per un poliziotto, il fatto è che, in questa ossessione, lui si spinge oltre, rischiando parecchio sia professionalmente sia nel suo legame coniugale.


    La costruzione del romanzo si sposta su più piani temporali, tra il presente, nel 2022 e un passato di quindici anni prima, mentre tutta l’azione converge verso la data della rapina, il 2 luglio 2022, in un count-down che tiene il fiato in sospeso. Ci sono accenni e poi chiarificazioni ai trascorsi di Arpad (tenuti ben segreti) e a quelli di Sophie (tenuti ancora più segreti), compare sulla scena un altro personaggio che sta alle costole di Sophie prima di venire allo scoperto, c’è un leit-motiv il cui significato scopriamo solo alla fine e che spiega il titolo- una pantera tatuata sulla coscia di Sophie. Non è solo un vezzo che attrae e incuriosisce aumentando il suo fascino, e c’è un’altra persona che si è fatta tatuare lo stesso felino come pegno d’amore.


Che cosa succede, poi, il fatidico giorno della rapina? Il lettore non se lo aspetta e resta sorpreso.

    A poco a poco, scena dopo scena, tre dei quattro personaggi perdono la loro aura, due di loro perdono anche ogni ammirazione possiamo aver provato nei loro confronti e il sentimento di invidia di una si svuota trasformandosi in delusione e amarezza. Non è tutto oro quel che luccica, come si suol dire. I colpi di scena si susseguono, la situazione viene ribaltata più di una volta e il finale è imprevedibile e rocambolesco.

    Il romanzo di Joël Dicker è destinato a diventare un best-seller perché ha tutte le caratteristiche ‘giuste’, e potrebbe anche servire come esempio in una scuola di scrittura. Lo stile è perfin troppo scarno ma facile da seguire, le sorprese e i segreti sono ben calibrati, c’è un mix di amore, sesso, scene idilliache, oggetti simbolici e iconici (l’anello pantera di Cartier, la casa di vetro che dovrebbe ospitare persone che non hanno niente da nascondere), le false piste sono intriganti. Di certo piacerà a molti.